Mental coaching, leadership ed energia interiore: la mia intervista su sport e vita
Negli ultimi anni mi è stato chiesto spesso cosa significhi davvero allenare la mente e che cosa renda una persona — nello sport come nella vita — capace di affrontare le sfide con lucidità, determinazione e fiducia. In questa bella intervista uscita sul Corriere della Sera, racconto alcuni momenti chiave del mio percorso personale e professionale: dalle Olimpiadi al coaching, dal fallimento alla rinascita, fino all’idea di presenza di spirito come qualità fondamentale per chi guida e ispira gli altri.
Parlo anche di Julio Velasco, dei talenti straordinari come Sinner e Pogacar, e naturalmente dell’energia che ciascuno di noi può allenare per portare il meglio di sé nel mondo. Prima di lasciarvi all’articolo ci tengo a ringraziare sia il Corriere della Sera che Pierfrancesco Catucci per il suo eccezionale lavoro.
Franco Bertoli: «Ecco i segreti di Velasco. Sinner e Pogacar non sono macchine»
di Pierfrancesco Catucci
L’ex pallavolista, protagonista del bronzo a Los Angeles 1984, ha 66 anni e si è specializzato nel mental coaching: «Bisogna lottare per vincere, Julio è riuscito a creare quella che chiamo “presenza di spirito”»
Con la Nazionale maschile ormai a un soffio dai quarti di finale di Nations League grazie all’ultimo successo per 3-2 sull’Ucraina e con la Nazionale femminile che ha appena eguagliato il record di 26 vittorie consecutive (con in mezzo anche il primo, storico, oro olimpico della pallavolo italiana), le attenzioni sul volley si sono moltiplicate. E, con le attenzioni, anche le pressioni. Franco Bertoli oggi ha 66 anni, ma quando giocava lo chiamavano “mano di pietra”. Era lui uno degli schiacciatori del bronzo di Los Angeles 1984, ma ora, dopo aver percorso diverse strade, si è specializzato nel mental coaching. Parla alle aziende, parla agli allenatori e agli atleti. E ha scritto “L’energia che sei” (Bookness, 146 pagine), un manuale di coaching in cui parla di energia personale, «un elemento determinante soprattutto nella leadership. È ciò che permette al leader di essere presente, lucido, autorevole, motivato, coraggioso, empatico. E, soprattutto, di trasmettere con forza e determinazione queste energie al suo team».
Prima di intraprendere questo nuovo percorso, questa energia lei l’aveva un po’ persa?
«Mentre l’Italia di calcio vinceva il Mondiale, io gestivo con la mia azienda l’hospitality dello stadio Tardini di Parma. Per farla breve, in quegli anni sono finito dentro il fallimento della Parmalat, che ha fatto fallire anche la mia azienda. In quel periodo mi sono anche separato da mia moglie e, insomma, ero abbastanza a pezzi».
Sarebbe facile fare il paragone con la sconfitta sportiva…
«Ho vinto e perso tanto nella mia carriera da giocatore, ma qui c’erano tante altre cose in ballo, a cominciare dalla mia famiglia. Ma ho tenuto duro e, studiando, ne sono venuto fuori».
D’altronde il ruolo del leader le era abbondantemente riconosciuto anche da atleta.
«Sono stato a lungo capitano di Modena e della Nazionale, ho lavorato con Velasco all’inizio della sua avventura in Italia, ho accompagnato nei primi anni di carriera Bernardi, Cantagalli, Vullo e tanti altri. Ero l’esperto in quelle squadre e ho sempre amato circondarmi di giovani: mi motivano tantissimo ed è quello che mi ha portato a scrivere il libro alla mia età».
Ci arriviamo. Prima, però, ci racconti il Velasco delle origini.
«Prima che la tecnica, insegnava la tattica, la preparazione fisica, la mentalità. Riuscì a cambiare lo spirito e l’energia di quella squadra fantastica (Modena, ndr). Mi ha insegnato tanto, ma prima di lui c’è stato Silvano Prandi che mi ha scoperto e forgiato. E poi Doug Beal a Milano. Julio è senz’altro il più celebre, probabilmente ha qualcosa più di tutti e lo sta dimostrando anche con il lavoro di questi anni in Nazionale. È riuscito a creare quella che io chiamo “presenza di spirito”, aiutando le ragazze a concentrarsi sul qui e ora. Che sono anche i temi che affronto io nel libro».
Nel libro lei parla di “allenare i sani”. Cosa intende?
«Che tutte le persone hanno un potenziale, ma non è sufficiente per essere sicuri di performare al massimo. E questo vale per i giocatori, ma anche per i manager d’azienda. Oltre alle competenze, servono consapevolezza, spirito, energia mentale, capacità di tenere lontane le interferenze che ti distolgono. E queste sono competenze che si allenano, così come il corpo. Perché alla fine si può vincere o si può perdere, ma conta la prestazione ancor prima del risultato».
Nello sport, però, è il risultato che fa la differenza.
«Che, però, arriva alla fine. Non si vince mai nello spogliatoio, prima della partita. Bisogna lottare per vincere. Quello che conta è impegnarsi una palla dopo l’altra, dare il meglio una palla dopo l’altra, non mollare se vai in svantaggio, per esempio. E il percorso è imprevedibile, quindi devi avere la forza per gestire ogni situazione. Il cosiddetto “risultatismo” rischia di rovinare i più giovani: la crescita passa per i percorsi e la capacità di risolvere i problemi, non per il numero di partite vinte o perse».
Ma come si allena questa consapevolezza?
«Ci vogliono le persone giuste, ci vogliono allenatori capaci, competenti, carismatici. E ci sono allenamenti specifici. Tantissimi atleti di alto livello praticano la meditazione e la mindfulness: allenare la respirazione è determinante per mantenere calma e lucidità nelle situazioni di stress».
Segue ancora la pallavolo?
«[…]»
👉 Per leggere l’articolo completo CLICCA QUI